
Nabeel non ha ancora compiuto tre anni. Il suo compleanno sarà a luglio, ma oggi non conta il giorno, né l’età. Conta solo che è vivo. Che è arrivato.
Nabeel è stato trasferito all’ospedale Santobono di Napoli dopo un lungo viaggio, iniziato sotto le bombe, tra le macerie di Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza. Soffre di una rara patologia del sistema immunitario. Lo accompagna il padre. E il nonno. La madre è rimasta a Gaza: ha partorito da un mese e non ha potuto seguirli. Nabeel ha attraversato la notte su un volo militare, poi un’ambulanza, poi un abbraccio. Quello dei medici, delle infermiere, delle persone che, senza conoscerlo, hanno deciso che valesse la pena lottare per lui.
Non è solo. Qualche mese fa, altri due bambini sono arrivati come lui, sottratti al massacro di civili che in questo momento martorizza Gaza. Il primo ha la sua stessa età, anche lui viene da Gaza, anche lui è ammalato, anche lui è stato accolto dal reparto oncologico del Santobono. Il secondo è più grande, è in cura nel reparto di neurochirurgia dell’Ospedale del Mare: anche per lui, la guerra si è accanita sul corpo e sull’anima, prima ancora che potesse difendersi.
Tre bambini. Tre storie. Tre vite già spezzate e ricucite mille volte. Sono piccoli, eppure portano addosso il peso di una guerra che non hanno scelto. Una guerra che li ha privati del sonno, del gioco, della spensieratezza. Che ha distrutto le loro case, ucciso i loro sogni, separato le loro famiglie. Ma non è riuscita a spegnere la scintilla. Quella che ancora brilla nei loro occhi stanchi.
Napoli li ha accolti come solo lei sa fare: con il cuore. Li ha stretti in un abbraccio collettivo fatto di medici, volontari, infermieri, istituzioni, cittadini comuni. Gesti silenziosi, lacrime discrete, carezze leggere sulle mani minuscole.
E allora, mentre il mondo continua a voltarsi dall’altra parte, mentre i potenti giocano con le parole e i numeri, qui si è scelta un’altra strada: quella dell’umanità. Di chi sa che salvare un bambino significa salvare il mondo intero.
Luciano De Crescenzo scriveva che forse, Napoli, è davvero l’ultima speranza che resta alla razza umana per sopravvivere. Forse aveva ragione.
Perché in questa città ferita e generosa, sporca e bellissima, tre bambini arrivati dal massacro di un intero popolo, stanno ricevendo non solo cure, ma dignità. Stanno imparando che esiste anche un altro mondo. Fatto di mare e vicoli, di voci che cantano e mani che aiutano. E forse, un giorno, li vedremo tornare. Da adulti. Camminare lungo il lungomare, tenendo per mano i loro figli. E raccontare loro che c’era una terra, lontana da casa, che un giorno li ha salvati. E gli ha insegnato che si può ancora credere negli esseri umani.