
Gaza, inverno del 2024.
Tra le macerie di Deir al-Balah, una bambina palestinese cammina scalza, stringendo una bambola di pezza cucita a mano.
Si chiama Lina. Ha sette anni.
E ha già visto morire la sua casa, la sua famiglia, la sua infanzia.
Sua madre le aveva fatto quel regalo prezioso una notte in cui, per qualche ora, il cielo era rimasto in silenzio.
L’aveva chiamata Noor. “Luce”.
«Tienila sempre con te, anche quando non ci sarò», le aveva sussurrato.
E Lina l’aveva fatto.
Anche quando il tetto è crollato.
Anche quando mamma e fratellini non sono stati ritrovati neanche tra le macerie.
Anche quando le parole hanno smesso di emettere qualsiasi suono.
Da allora, Lina non parla più.
Ma racconta tutto a Noor.
La fame che scava lo stomaco.
Le file per un pezzo di pane.
Le corse nei corridoi di un ospedale che non ha più medicine.
I corpi dei bambini allineati nei cortili delle scuole bombardate.
Il freddo, la paura, le notti buie.
L’abbandono.
Un giorno, un volontario dell’UNRWA le ha porto un libro illustrato.
Lei non lo ha preso.
Ha preso una penna.
E su un pezzo di cartone ha scritto due nomi:
Lina e Noor.
Quella foto – una bambina palestinese, con la sua bambola rotta e un silenzio più eloquente di mille urla – ha fatto il giro del mondo.
Ma il mondo ha continuato a voltarsi dall’altra parte.
A scrollare il dito.
A distrarsi.
A giustificare.